[ Pobierz całość w formacie PDF ]
deva che Cinto la risarcisse, pagasse, lo mettessero den-
tro. Si seppe ch era andata a consigliarsi dal notaio e che
il notaio l aveva dovuta ragionare per un ora. Poi era
corsa anche dal prete.
Il prete la fece piú bella. Siccome il Valino era morto
in peccato mortale, non volle saperne di benedirlo in
chiesa. Lasciarono la sua cassa fuori sui gradini, mentre
il prete dentro borbottava su quelle quattro ossa nere
delle donne, chiuse in un sacco. Tutto si fece verso sera,
di nascosto. Le vecchie del Morone, col velo in testa, an-
darono coi morti al camposanto raccogliendo per strada
margherite e trifoglio. Il prete non ci venne perché ri-
pensandoci anche la Rosina era vissuta in peccato
mortale. Ma questo lo disse soltanto la sarta, una vec-
chia lingua.
Letteratura italiana Einaudi 122
Cesare Pavese - La luna e i falò
XXVIII
Irene non mori del tifo quell inverno. Mi ricordo che
nella stalla o alla pioggia dietro l aratro, fin che Irene fu
in pericolo, io cercavo di non piú bestemmiare, di pen-
sar bene, per aiutarla cosí la Serafina diceva di fare.
Ma non so se l abbiamo aiutata, forse era meglio che
morisse quel giorno che il prete era venuto a benedirla.
Perché, quando in gennaio finalmente uscí e la portaro-
no magra magra in biroccio a sentir messa a Canelli,
quel Cesarino era partito per Genova da un pezzo, sen-
za aver chiesto o fatto chiedere neanche una volta sue
nuove. E il Nido era chiuso.
Anche Silvia tornando ebbe una grossa delusione ma,
per quanto tutti dicessero, ci soffrí meno. Silvia era già
avvezza a queste cattiverie e sapeva come prenderle e ri-
farsi.
Il suo Matteo s era messo con un altra. Silvia non era
tornata subito in gennaio da Alba, e perfino alla Mora
cominciavamo a dire che se non tornava c era un motivo
si capisce, era incinta. Quelli che andavano al mercato
in Alba dicevano che Matteo di Crevalcuore passava
certi giorni in piazza sulla moto come una schioppettata,
o davanti al caffè. Mai che li vedessero scappare abbrac-
ciati insieme, o anche soltanto incontrarsi. Dunque Sil-
via non poteva uscire, dunque era incinta. Fatto sta che
Matteo, quando lei nella bella stagione tornò, s era già
presa un altra donna, la figlia del caffettiere di Santo
Stefano, e ci passava le notti. Silvia tornò con Santina
per mano, dallo stradone: nessuno era andato a pren-
derle al treno, e si fermarono in giardino a toccare le pri-
me rose. Parlottavano insieme come fossero madre e fi-
glia, rosse in faccia dalla camminata.
Chi invece adesso era smorta e sottile, e aveva gli oc-
chi sempre a terra, era Irene. Sembrava quelle freddoli-
Letteratura italiana Einaudi 123
Cesare Pavese - La luna e i falò
ne che vengono nei prati dopo la vendemmia o l erba
che continua a vivere sotto una pietra. Portava i capelli
sotto un fazzoletto rosso, mostrava il collo e le orecchie
nude. L Emilia diceva che non avrebbe mai piú avuto la
testa di prima che la bionda adesso sarebbe stata San-
tina che aveva una testa anche piú bella d Irene. E Santi-
na sapeva già di valere, quando si metteva dietro la gri-
glia per farsi guardare, o veniva tra noi nel cortile, sui
sentieri, e chiacchierava con le donne. Io le chiedevo
che cosa avevano fatto in Alba, che cosa aveva fatto Sil-
via, e lei se ne aveva voglia rispondeva che stavano in
una bella casa coi tappeti, davanti alla chiesa, e certi
giorni venivano le signore, i bambini, le bambine, e gio-
cavano mangiavano le paste dolci, poi una sera erano
andate al teatro con la zia e con Nicoletto, e tutti vesti-
vano bene, le bambine andavano a scuola dalle mona-
che, e un altr anno ci sarebbe andata anche lei. Della
giornata di Silvia non mi riuscí di sapere gran che, ma
doveva aver ballato molto con gli ufficiali. Malata non
era stata mai.
Ripresero a venire alla Mora a trovarle i giovanotti e
le amiche di prima. Quell anno Nuto andò soldato, io
adesso ero un uomo e non succedeva piú che il massaro
mi menasse una cinghiata o qualcuno mi dicesse bastar-
do. Ero conosciuto in molte cascine là intorno; andavo e
venivo di sera, di notte; parlavo a Bianchetta. Comincia-
vo a capire tante cose l odore dei tigli e delle gaggíe
aveva un senso anche per me, adesso sapevo che cos era
una donna, sapevo perché la musica sui balli mi metteva
voglia di girare le campagne come i cani. Quella finestra
sulle colline oltre Canelli, di dove salivano i temporali e
il sereno, e il mattino spuntava, era sempre il paese dove
i treni fumavano, dove passava la strada per Genova. Sa-
pevo che fra due anni avrei preso anch io quel treno, co-
me Nuto. Nelle feste cominciavo a far banda con quelli
della mia leva si beveva, si cantava, si parlava di noial-
tri.
Letteratura italiana Einaudi 124
Cesare Pavese - La luna e i falò
Silvia adesso era di nuovo pazza. Ricomparvero alla
Mora l Arturo e il suo toscano, ma lei nemmeno li
guardò. S era messa con un ragioniere di Canelli che la-
vorava da Contratto e sembrava che dovessero sposarsi,
sembrava d accordo anche il sor Matteo il ragioniere
veniva alla Mora in bicicletta, era un biondino di San
Marzano, portava sempre il torrone a Santina ma una
sera Silvia sparí. Rientrò soltanto il giorno dopo, con
una bracciata di fiori. Era successo che a Canelli non
c era solo il ragioniere ma un bell uomo che sapeva il
francese e l inglese e veniva da Milano, alto e grigio, un
signore si diceva che comprasse delle terre. Silvia s in-
contrava con lui in una villa di conoscenti e ci facevano
le merende. Quella volta ci fecero cena, e lei uscí l indo-
mani mattina. Il ragioniere lo seppe e voleva ammazzare
qualcuno, ma quel Lugli andò a trovarlo, gli parlò come
a un ragazzo e la cosa finí lí.
Quest uomo che aveva forse cinquant anni e dei figli
grandi, io non lo vidi mai che da lontano, ma per Silvia
fu peggio che Matteo di Crevalcuore. Sia Matteo che
Arturo e tutti gli altri erano gente che capivo, giovanotti
cresciuti là intorno, poco di buono magari, ma dei no-
stri, che bevevano, ridevano e parlavano come noi. Ma
questo tale di Milano, questo Lugli, nessuno sapeva quel
che facesse a Canelli. Dava dei pranzi alla Croce Bianca,
era in buona col podestà e con la Casa del fascio, visita-
va gli stabilimenti. Doveva aver promesso a Silvia di
portarla a Milano, chi sa dove, lontano dalla Mora e dai
bricchi. Silvia aveva perso la testa, lo aspettava al caffè
dello Sport, giravano sull automobile del segretario per
le ville, per i castelli, fino in Acqui. Credo che Lugli fos-
se per lei quello che lei e sua sorella sarebbero potute es-
sere per me quello che poi fu per me Genova o l Ame-
rica. Ne sapevo già abbastanza a quei tempi per
figurarmeli insieme e immaginare quel che si dicevano
come lui le parlava di Milano, dei teatri, di ricconi e di
corse, e come lei stava a sentire con gli occhi pronti, ar-
Letteratura italiana Einaudi 125
Cesare Pavese - La luna e i falò
diti, fingendo di conoscere tutto. Questo Lugli era sem-
pre vestito come il modello di un sarto, portava una pi-
petta in bocca, aveva i denti e un anello d oro. Una volta
Silvia disse a Irene e l Emilia sentí ch era stato in In-
ghilterra e doveva tornarci.
Ma venne il giorno che il sor Matteo piantò una sfu-
riata alla moglie e alle figlie. Gridò che era stufo di musi
lunghi e di ore piccole, stufo dei mosconi là intorno, di
non sapere mai la sera a chi dir grazie la mattina, d in-
contrare dei conoscenti che gli tiravano satire. Diede la
colpa alla matrigna, ai fannulloni, alla razza puttana del-
le donne. Disse che almeno la sua Santa la voleva alleva-
re lui, che si sposassero pure se qualcuno le prendeva
[ Pobierz całość w formacie PDF ]